L'infinito
- lingfenhu91
- 1 giu
- Tempo di lettura: 3 min
Ho una cugina che ha cinque anni più di me, si chiama Xiaoxiao. È l’unica figlia della sorella maggiore di mio padre. Siamo cresciute insieme ma a differenza mia, che rimasi in Cina con i nonni solo fino ai quattro anni non ancora compiuti, lei vi ci rimase fino ai quattordici anni. In quegli anni molti giovani adulti si stavano già trasferendo all’estero ma pochi avevano dei bimbi, quindi lei fu una delle prime a crescere senza genitori. A casa abbiamo foto di lei bambina sola, senza nessuno a fianco, e con quel viso malinconico che solo i bimbi cresciuti da soli possono mostrare.
Una mattina di domenica, mentre stavo ancora dormendo, qualcuno suonò alla porta, pochi attimi dopo una ragazza sconosciuta, con un sorriso tutto denti, mi si avvicinò e gridò: “Fanfan! Sono io, Xiaoxiao!”
Ma io non mi ricordavo più niente della mia vita passata, il viaggio dal villaggio all’Italia aveva steso un velo impenetrabile sulla mia memoria, cancellando tutto ciò che c’era stato prima: i luoghi, gli odori, le persone.
Xiao Xiao significa “Piccola piccola”, anche se lei mi era sempre sembrata enorme, altissima, un po’ paffuta, con i capelli lunghissimi raccolti a coda di cavallo e un sorriso contagioso. Quando veniva a trovarci, arrivava sempre con un sacchetto pieno di snack e dolciumi e altre cibarie poco salutari e tossiche, a detta di mia madre, e quando andavamo a trovarla ci cucinava i noodles istantanei, che semplicemente adoravamo. Avendo frequentato le scuole cinesi fino alle medie, sapeva non solo parlare ma anche leggere e scrivere in cinese, oltre al dialetto. Trascriveva canzoni cinesi e leggeva romanzi d’amore, e mi sembrava così moderna, così diversa da me. La vedevo spesso litigare con sua madre, mia zia, con lei Xiaoxiao era costantemente arrabbiata e piena di disprezzo. Per averla abbandonata da sola in Cina, per essere cresciuta da sola, o perché erano estranee costrette a vivere insieme.
Si sposò all’età di ventidue anni, considerata già da molti anziana, con un ragazzo cinese delle parti di Prato che gestiva con la famiglia un ingrosso di abbigliamento. La rividi solo cinque anni dopo il suo matrimonio, dopo tre figli e due aborti. Fu una strana sensazione. Non era più così alta come me la ricordavo da piccola, era leggermente incurvata come un’anziana, come sua madre, magra, con i zigomi pronunciati, senza più quelle guance paffute. Eppure aveva solo ventisette anni. Come se la vita adulta, da moglie, da madre, da lavoratrice, l’avesse prosciugata e a nulla furono valsi gli anni di scuola in Italia, lei ora apparteneva alla comunità. Si è trasferita di recente a Varsavia con tutta la famiglia, a gestire un ingrosso. Come si fa a imparare il polacco?
Quando lasciò le superiori per andare a lavorare, sua madre ci diede un sacco pieno dei suoi libri, in caso potessero servire a me che avrei iniziato di lì a poco il liceo.
Tra tutti i libri, fui catturata dall’Antologia della Letteratura Italiana e da un libro di inglese. La pagina che più mi colpì dell’antologia fu quella di Leopardi con la poesia “L’Infinito”. Non potevo credere che sarebbe potuto mai esistere un testo con un titolo simile. L’Infinito. Che cos’è l’infinito?
Tutto era per me bambina finito, la piccolezza della mia vita, le quattro mura dell’appartamento, i pochi soldi, la mia impotenza davanti alle ingiustizie quotidiane, la mia ignoranza, la consapevolezza sconvolgente della miseria del mio passato, presente e forse futuro. Lessi il testo più e più volte ma la me tredicenne non riuscì comunque a carpirne il significato profondo. Quale era il nesso con il colle o con la siepe? Decisi così di impararlo a memoria perché l’insieme delle parole erano di una bellezza struggente, e lette ad alta voce mi facevano venire i brividi, per non contare che sicuramente la prof ne avrebbe parlato a scuola. Profondissima quiete, infinito silenzio, le morte stagioni, e la presente, e viva, e il suon di lei. Così tra questa infinità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare.
Nel libro d’inglese invece conobbi Martin Luther King e il suo discorso “Io ho un sogno”. Scoprii così la schiavitù in America, la lotta per i diritti civili degli afroamericani, la profonda e radicata discriminazione contro i neri. E rimasi sbigottita dalla forza, dalla potenza e dall’importanza di quelle parole, e mi resi conto di quanto esse, tutte le parole, possano essere determinanti.
E capii che nella vita si può lottare, si deve lottare, e il silenzio e la passività (le mie allora uniche armi) non bastavano più.
E mi chiesi quale sarebbe stata la musica della libertà tra i portici di Bologna color del tramonto.

Mi sono commossa per il tuo post. Hai una sensibilità straordinaria. Ti abbraccio Giovanna