Questa cosa della cittadinanza Italiana l’ho sempre desiderata dacché abbia memoria ma non credevo che mi sarebbe mai capitata. Semplicemente non era a mio appannaggio, quando sai che certe cose vanno così, punto. Un po’ come il Taj Mahal, bellissimo in una cartolina, ma che pensavo che non l’avrei mai visto dal vivo nella vita mia.
A differenza delle mie sorelle e delle mie cugine, tutte nate in Italia, a Bologna, e a 18 anni hanno potuto automaticamente chiedere la cittadinanza Italiana senza troppi cavilli burocratici, ecco, io ero nata in Cina. E che se ne importa se all’età di quattro anni appena compiuti mi sono trasferita in Italia – il termine non è proprio esatto, forse è più giusto dire “sono stata trasferita”, del resto che vuoi che ne sappia una bimba di quattro anni di migrazione e di povertà.
Ho sempre studiato in Italia, eccetto per un breve periodo a Pechino e qualche mese in Francia, e ho sempre considerato l’Italia e in particolare Bologna come la mia casa : è qui dove ho i miei libri, le mie amicizie, le mie calamite, la mia routine. Certo, c’è anche un filo che mi lega inestricabilmente alla grande Cina e ora che di anni ne ho 33, ne sono fiera.
Ma è stato ingarbugliato questo percorso, come quando districhi un gomitolo di lana, esso non è dritto ma pieno di curve e nodi che non puoi sciogliere facilmente.
Per anni ho vissuto con astio questa mia condizione, mi sentivo Dottor Jekyll and Mister Hyde, oppure Balto né cane né lupo. Invidiavo tanto nei viaggi che facevo all’estero queste ragazze che indifferentemente dicevano di venire da Chicago o da Auckland, ed erano palesemente asiatiche o in parte, mentre io dovevo sempre specificare “vengo dall’Italia ma sono nata in Cina”, come se dovessi giustificare la mia faccia; e non potevo dire di essere Italiana, mi sembrava di non averne il diritto, di dire una menzogna, ma allo stesso tempo era una menzogna dire di essere Cinese- nonostante il passaporto e il fatto che abbia i nonni in Cina e molti miei parenti vi ritorneranno, che parli la lingua e che il mio comfort food è il congé di riso a colazione.
A undici anni ero stata premiata in una piccola competizione letteraria “Fahrenheit 451”, che si ispira al libro di Ray Bradbury e indica la temperatura a cui bruciano i fogli dei libri in una società non tanto distopica in cui leggere è un crimine. Avevo scritto una recensione su “Le Streghe” di Road Dahl, uno dei libri che mia madre aveva acquistato per imparare l’italiano e uno dei pochissimi che avevamo in casa. Ecco, oltre a un buono libri da spendere alla Giannino Stoppani, c’era anche un enorme vocabolario di lingua italiana della Garzanti, blu, dalla copertina rigida, pesantissima. Mi sono sentita in quel momento invincibile, avevo le chiavi per aprire tutte le porte di questa lingua tanto familiare che però non conoscevo ancora benissimo. Poi a quattordici anni, quando dovetti scegliere il tipo di Liceo da frequentare, mi era apparsa ovvia la scelta del Classico, anche se forse la ragione principale fu che c’erano solo due ore di Matematica alla settimana.
Andando a ritroso, penso che tale scelta fosse dettata anche dalla mia volontà di farmi accettare dalla società italiana e da me stessa. Perché come puoi considerare straniera una ragazza che conosce pure l’ariosto del greco antico? Come se, sapendo le origini antiche della cultura e della lingua italiana, avessi più diritti di essere considerata Italiana.
Ma il vero problema era che io Italiana non mi ero mai considerata in quegli anni. Mi sentivo straniera, certo, diversa da quelli appena arrivati che non sanno dove andare, io conoscevo tutte le regole del gioco e mi destreggiavo, ma c’era sempre quel pezzo di carta – il permesso di soggiorno- che se perdevo mi consideravo spacciata. Ero in un limbo.
Ecco, dopo anni di attesa, il 13 gennaio 2025, a trentatré anni, sono ufficialmente diventata Italiana! E paradossalmente solo perdendo la cittadinanza cinese, mi rendo conto che questa mia origine per anni da me osteggiata è ciò che mi ha sempre arricchito. Quindi è meglio dire che sono diventata Italo- Cinese.
Non sono cristiana ma sono imbevuta del cristianesimo anche senza volerlo e sarei tentata di associare questa mia acquisizione della cittadinanza a una sorta di rinascita – come Cristo che risorge – ma non sono empia.
Mi piace quindi pensare a questo mio percorso verso l’Italo-cinesità come un fiume che scorre, lo stesso del πάντα ῥεῖ di Eraclito e lo stesso fiume del maestro del tè Luyu. Luyu scrive nel suo antichissimo Canone del Tè che l’acqua più pura per fare il tè è quello di montagna, al secondo posto vi è l’acqua di ruscello, ma non deve essere immobile e stagnante ma fluire sempre e solo così potrà venire un tè delizioso e non tossico.
Tutto cambia ed il presente è il risultato di ciò che è avvenuto prima, degli incontri fatti, delle esperienze vissute, niente si rinnega ma si accetta, però non rimane fisso – le porte chiuse, i no, le titubanze- perché appunto tutto scorre, e incredibilmente è lo stesso scorrere che insegna il Buddha Shakyamuni che, per come l’ho intesa io, è un lasciar andare le cose, non obliarle perché fanno parte di te, ma inspirare ed espirare.
E ricollegandomi alla mia primissima frase di questo articolo che sta diventando lunghissimo, ma del resto lunghissima è la mia vita e la vita di ognuno di noi, alla fine il Taj Mahal – che non era neanche lontanamente nella mia mente come possibile meta di viaggio perché non potevo immaginarmi proprio io in India! – ecco alla fine me lo sono ritrovato davanti a me in tutto il suo marmoreo splendore contro il grigio smog di Agra sullo sfondo.

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